Blog, Letteratura

Colette era sdraiata sul lettino in terrazza. Sorseggiava un tè freddo con un sorso di brandy.
Il sole era alto e l’estate bussava alla porta, riflettendosi sulle colline intorno e tuffandosi nel mare. Il vicinato era assopito e la musica scorreva placida e avvolgente.

Fino all’indomani nessuno l’avrebbe disturbata. La famiglia era fuori dal mattino, avrebbero cenato al ristorante e l’argenteria poteva aspettare il calar del sole. Erano buoni con lei, sempre grati per il suo lavoro e le sue attenzioni. Colette era fatta così, aiutava e ascoltava.

Le piacevano le persone. Le piaceva guardarsi intorno.
Nella villa accanto i ragazzi leggevano sull’amaca. Tom Saywer era il loro personaggio preferito. Di fronte i signori Nelson erano in videochiamata con il nipotino. Da quando erano diventati nonni non avevano occhi e orecchi che per lui. Ah poi c’era lei, la signorina Penelope, bella come Audrey Hepburn ai tempi di
Colazione da Tiffany, tutto il terrazzo era color tiffany in effetti. Tanti corteggiatori si sedevano su quelle poltrone, ben pochi entravano in camera da letto.

Driiiiin. Colette saltò dal lettino e si precipitò a rispondere al telefono di casa. “Colette, c’è stato un cambio di programma, ceniamo a casa stasera. Riesci a prepararci una cena light? Nulla di impegnativo. Salmone marinato. Salsa rosa. Crostini. Una bella macedonia. Se trovi la panna sarebbe perfetto! Hai finito con l’argento?”. Colette sospirò e pensò ad alta voce:”In un’altra vita voglio rinascere Penelope”. “Come? Non ho capito”, disse la voce dall’altro capo del telefono. “Mi scusi signora, la linea è disturbata, l’argento splende come il sole nel cielo. A stasera”.

Colette indossò il pareo e cominciò a pulire l’argento. Ripensando alla telefonata rise di gusto.

Immagine: La stanza rossa di Henri Matisse

Lab di scrittura riSTORYanti tenuto da Antonella Petrera a cura di Colori Vvaci

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Fuggì da quella casa in fretta e furia senza prendere altro se non il trasportino con la sua amata Briscola. Una gattina siamese che Mary aveva salvato dalla strada e di cui ora non poteva fare più a meno.

Scappò a perdifiato da quell’uomo crudele che aveva distrutto ogni virgola della sua autostima.
Dopo un’oretta Mary fermò stremata la macchina, più per l’agitazione che per la strada percorsa.

C’era un piccolo ristorantino, alla buona, una palafitta sul mare che profumava di cibo confortevole e di sogni infranti. Ebbe fame.
Entrò e fece un timido cenno a Briscola che sonnecchiava nel trasportino. La donna che l’accolse le strizzò l’occhio e le indicò un bel tavolino con vista mare.

Mary, ancora spaventata dall’ultima sfuriata con “il mostro”, come ormai lo chiamava nei suoi pensieri, si sedette e finalmente cedette ad un pianto liberatorio.

La padrona del locale, Olga, si avvicinò e le porse un fazzoletto ricamato, al tatto era morbidissimo e delicato, e con stupore di Mary riportava le iniziali del suo nome e cognome Mary Thompson.
Rimase interdetta ma si sentì improvvisamente serena e al sicuro. Guardò a lungo il mare e poi avvertì Briscola lamentarsi.

Il locale era vuoto e la fece uscire dal trasportino. La micia saltò sulla ringhiera e la guardava con i suoi occhietti indagatori. Li spostava da Mary al mare e viceversa.
Sembrava in pace anche lei.
Olga portò il piatto del giorno, un buon vino rosso e una ciotola di croccantini per Briscola.

Mentre tornava in cucina le sembrò nitidamente di sentire una voce: ”Forza ragazza, il peggio è passato, ora muoviamoci, compriamo dei vestiti nuovi e un collarino prezioso per me e via alla conquista del mondo”.
Olga si girò di scatto ma Mary e Briscola si godevano il loro meritato pranzo, in silenzio.

Lab di scrittura riSTORYanti tenuto da Antonella Petrera a cura di Colori Vivaci