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[…]

Perchè anche noi, discepoli che vogliono, come lui, sperare ed edificare, dare vita e liberare, siamo chiamati ad assumere il ruolo di “pastore buono”, cioè forte e bello, combattivo e tenero, del gregge che ci è consegnato: la famiglia, gli amici, quanti contano su di noi e di noi si fidano. “Dare vita” significa contagiare di amore, libertà e coraggio chi avvicini, di vitalità ed energia chi incontri. Significa trasmettere le cose che ti fanno vivere, che fanno lieta, generosa e forte la tua vita, bella la tua fede, contagiosi i motivi della tua gioia.

Ermes Ronchi

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Il messaggio del vangelo di oggi mi piace tanto. Far pace con le ombre e tirar fuori la luce sepolta da esse, tirar fuori Dio che c’è, c’è sempre ma talvolta sembra sbiadito dai nostri momenti di oscurità che non ci permettono di sentirne al presenza.

Il nostro rapporto con Dio dovrebbe essere come la reazione di Pietro…stupore! Ogni giorno sempre più stupiti dalla bellezza di Dio.

“Dall’abisso di pietre al monte della luce, dalle tentazioni nel deserto alla trasfigurazione. Le prime due domeniche di Quaresima offrono la sintesi del percorso che la vita spirituale di ciascuno deve affrontare: evangelizzare le nostre zone d’ombra e di durezza, liberare tutta la luce sepolta in noi. In noi che siamo, assicura Gesù, luce del mondo. Guardate a lui e sarete raggianti e non avrete più volti oscuri, cantava il salmista. Aveva iniziato in Galilea la sua predicazione con la bella notizia che il regno di Dio si è fatto vicino; convertitevi, diceva, e credete che Lui è qui e guarisce la vita. Oggi il Vangelo mostra gli effetti della vicinanza di Dio: vedere il mondo in altra luce e reincantare la bellezza della vita.Gesù porta i tre discepoli sopra un monte alto. La montagna è la terra che penetra nel cielo, il luogo dove si posa il primo raggio di sole e indugia l’ultimo; i monti sono, nella Bibbia, le fondamenta della terra e la vicinanza del cielo, il luogo che Dio sceglie per parlare e rivelarsi. E si trasfigurò davanti a loro. E le sue vesti divennero splendenti, bianchissime. Anche la materia è travolta dalla luce. Pietro ne è sedotto, e prende la parola: che bello essere qui, Rabbì! Facciamo tre capanne. L’entusiasmo di Pietro, la sua esclamazione stupita: che bello! ci fanno capire che la fede per essere pane nutriente, per essere vigorosa, deve discendereda uno stupore, da un innamoramento, da un “che bello!” gridato a pieno cuore. Avere fede è scoprire, insieme a Pietro, la bellezza del vivere, ridare gusto a ogni cosa che faccio, al mio svegliarmi al mattino, ai miei abbracci, al mio lavoro. Tutta la vita prende senso, ogni cosa è illuminata: il male e il buio non vinceranno, il fine della storia sarà positivo. Dio vi ha messo mano e non si tirerà indietro.Ciò che seduce Pietro non è lo splendore del miracolo o il fascino dell’onnipotenza, ma la bellezza del volto di Gesù, immagine alta e pura del volto dell’uomo, così come lo ha sognato il cuore di Dio. Intuisce che la trasfigurazione non è un evento che riguarda Gesù solo, ma che si tratta di un paradigma che ci riguarda tutti e che anticipa il volto ultimo dell’uomo, è «il presente del nostro futuro» (come Tommaso d’Aquino chiama la speranza).Infine il Padre prende la parola ma per scomparire dietro la parola del Figlio: «Ascoltate Lui». Sali sul monte per vedere e sei rimandato all’ascolto. Scendi dal monte e ti rimane nella memoria l’eco dell’ultima parola: Ascoltate Lui. Nostra vocazione è liberare, con gioiosa fatica, tutta la bellezza di Dio sepolta in noi. E il primo strumento per la liberazione della luce è l’ascolto della Parola.” (p. Ermes Ronchi – commento al Vangelo di domenica 25 febbraio 2017)

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[…] per stare bene l’uomo deve dare! Mano nella mano, uomo e Dio, l’infinito e il mio nulla, e aggrapparmi forte: per me è questa l’icona mite e possente della buona novella. P. Ermes Ronchi (dal commento al Vangelo del 11 febbraio 2017)

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“In poche righe, un incalzare di avvenimenti: Giovanni arrestato, Gesù che ne prende il testimone, la Parola che non si lascia imprigionare, ancora Gesù che cammina e strade, lago, barche; le prime parole e i primi discepoli. Siamo al momento fresco, sorgivo del vangelo. Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio. La prima caratteristica Marco riferisce è quella di un uomo raggiunto da una forza che lo obbliga a partire, a lasciare casa, famiglia, clan, paese, tutto. Il primo atto registrato dal vangelo è l’itineranza di Gesù, la sua viandanza. E per casa la strada. Proprio su questo andare e ancora andare, si innesta la seconda caratteristica: camminava e “proclamava il vangelo di Dio”: Dio come una bella notizia. Non era ovvio per niente. Non tutta la bibbia è vangelo, non tutta è bella e gioiosa notizia, alle volte è minaccia e giudizio, spesso è precetto e ingiunzione, ma ora la caratteristica nuova del rabbi itinerante è proprio il vangelo: una parola che conforta la vita, Dio che libera e fa fiorire. Gesù passa e dietro di lui resta una scia di pollini di primavera, un’eco in cui vibra il sapore bello e buono della gioia: è possibile la felicità, un’altra storia, un mondo altro sono possibili. E quell’uomo sembra conoscerne il segreto.
La bella notizia che inizia a correre per la Galilea è raccontata così: il regno di Dio (il mondo come Dio lo sogna) è vicino. Perché Dio si è avvicinato, ci ha raggiunto, è qui. Ma quale Dio? Gesù ne mostra il volto, da subito, con il suo primo agire: libera, guarisce, purifica, perdona, toglie barriere, ridona pienezza di relazione a tutti, anche a quelli marchiati dall’esclusione. Un Dio esperto in nascite, in vita. Per accoglierlo, suggerisce Gesù, convertitevi e credete nel vangelo. La conversione non come un’esigenza morale, ma un accorgersi che si è sbagliato strada, che la felicità è altrove. ‘Convertitevi’ allora, ‘giratevi verso la luce’, come un girasole che si rimette ad ogni alba sui sentieri del sole, ‘perché la luce è già qui’. Credete nel vangelo, non semplicemente al vangelo. Buttatevici dentro, con una fiducia che non darete più a nient’altro e a nessun altro. Camminando lungo il mare di Galilea, Gesù vide… Cammina senza fretta e senza ansia; cammina sulla riva, in quel luogo intermedio tra terra e acqua, che sa di partenze e di approdi, e chiama quattro pescatori ad andare con lui. Vi faro diventare pescatori di uomini, vi farò pescatori di umanità, cercatori di tutto ciò che di più umano, bello, grande, luminoso ogni figlio di Dio porta nel cuore. Lo tirerete fuori dall’oscurità, come tesoro dissepolto dal campo, come neonato dalle acque materne.”

Commento al Vangelo di domenica 21 gennaio 2018 di Padre Ermes Ronchi

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“Nulla vi è di autenticamente umano che non trovi eco nel cuore di Dio.
Amerai, dice Gesù, usando un verbo al futuro, come una azione mai conclusa. Amare non è un dovere, ma una necessità per vivere.
Cosa devo fare, domani, per essere ancora vivo? Tu amerai.
Cosa farò anno dopo anno? Tu amerai.
E l’umanità, il suo destino, la sua storia? Solo questo: l’uomo amerà.
Ed è detto tutto. Qui gettiamo uno sguardo sulla fede ultima di Gesù: lui crede nell’amore, si fida dell’amore, fonda il mondo su di esso.
Amerai Dio con tutto il cuore. Non significa ama Dio esclusivamente e nessun altro, ma amalo senza mezze misure. E vedrai che resta del cuore, anzi cresce e si dilata, per amare il marito, il figlio, la moglie, l’amico, il povero. Dio non è geloso, non ruba il cuore, lo dilata.

Ama con tutta la mente. L’amore è intelligente: se ami, capisci di più e prima, vai più a fondo e più lontano. Amo molto quel proverbio inglese che dice «clarity, charity»: chiarezza, carità. La chiarezza si raggiunge percorrendo la via dell’amore (J. Tolentino).

Gli avevano domandato il comandamento grande e lui invece ne elenca due. La vera novità non consiste nell’avere aggiunto l’amore del prossimo, era un precetto ben noto della legge antica, ma nel fatto che le due parole insieme, Dio e prossimo, fanno una sola parola, un unico comandamento. Dice infatti: il secondo è simile al primo. Amerai l’uomo è simile ad amerai Dio. Il prossimo è simile a Dio, il fratello ha volto e voce e cuore simili a Dio. Il suo grido è da ascoltare come fosse parola di Dio, il suo volto come una pagina del libro sacro.

Amerai il tuo prossimo come ami te stesso. Ed è quasi un terzo comandamento sempre dimenticato: ama te stesso, amati come un prodigio della mano di Dio, scintilla divina. Se non ami te stesso, non sarai capace di amare nessuno, saprai solo prendere e accumulare, fuggire o violare, senza gioia né intelligenza né stupore.”

Padre Ermes Ronchi

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“Non lasciarmi mai nell’indifferenza, Cristo mia dolce rovina (Turoldo)  che rovini il mio mondo di maschere e bugie, che rovini la vita illusa. Contraddicimi, Signore: contraddici i miei pensieri con i tuoi pensieri, questa mia amata mediocrità, le sicurezze del Narciso che è in me, l’immagine falsa che ho di te. Sii mia risurrezione, quando sento che non ce la faccio, quando il vuoto dentro e il buio davanti; dopo il fallimento facile, la fedeltà mancata, l’umiliazione bruciante risorgi con le cose che amavo e credevo finite. Anche a te una spada Maria: non si è esente dal dolore. La fede non produce l’anestesia del vivere, Ma non lascia mai affondare nella banalità.”

Padre Ermes Ronchi

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I monti sono come indici puntati verso il mistero e le profondità del cosmo, raccontano che la vita è un’ ascendere verso più luce, più cielo. […]

Allora smettiamola di sottolineare l’errore negli altri. Staniamo, snidiamo in noi e in ognuno la bellezza della luce, invece di fustigare le ombre.

Ermes Ronchi

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La strada di Emmaus racconta di cammini di delusione, di sogni in cui avevano tanto investito e che hanno fatto naufragio. E di Dio, che ci incontra non in chiesa, ma nei luoghi della vita, nei volti, nei piccoli gesti quotidiani. I due discepoli hanno lasciato Gerusalemme: tutto finito, si chiude, si torna a casa. Ed ecco che un Altro si avvicina, uno sconosciuto che offre soltanto disponibilità all’ascolto e il tempo della compagnia lungo la stessa strada. Uno che non è presenza invadente di risposte già pronte, ma uno che pone domande. Si comporta come chi è pronto a ricevere, non come chi è pieno di qualcosa da offrire, agisce come un povero che accetta la loro ospitalità. Gesù si avvicinò e camminava con loro. Cristo non comanda nessun passo, prende il mio. Nulla di obbligato. Ogni camminare gli va. Purché uno cammini. Gli basta il passo del momento, il passo quotidiano. E rallenta il suo passo sulla misura del nostro, incerto e breve. Si fa viandante, pellegrino, fuggitivo, proprio come i due; senza distanza né superiorità li aiuta a elaborare, nel racconto di ciò che è accaduto, la loro tristezza e la loro speranza: Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino? Non hanno capito la croce, il messia sconfitto, e lui riprende a spiegare: interpretando le scritture, mostrava che il Cristo doveva patire. I due camminatori ascoltano e scoprono una verità immensa: c’è la mano di Dio posata là dove sembra impossibile, proprio là dove sembra assurdo, sulla croce. Così nascosta da sembrare assente, mentre sta tessendo il filo d’oro della tela del mondo. Forse, più la mano di Dio è nascosta più è potente. E il primo miracolo si compie già lungo la strada: non ci bruciava forse il cuore mentre ci spiegava le Scritture? Trasmettere la fede non è consegnare nozioni di catechismo, ma accendere cuori, contagiare di calore e di passione. E dal cuore acceso dei due pellegrini escono parole che sono rimaste tra le più belle che sappiamo: resta con noi, Signore, perché si fa sera. Resta con noi quando la sera scende nel cuore, resta con noi alla fine della giornata, alla fine della vita. Resta con noi, e con quanti amiamo, nel tempo e nell’eternità. E lo riconobbero dal suo gesto inconfondibile, dallo spezzare il pane e darlo. E proprio in quel momento scompare. Il vangelo dice letteralmente: divenne invisibile. Non se n’è andato altrove, è diventato invisibile, ma è ancora con loro. Scomparso alla vista, ma non assente. Anzi, in cammino con tutti quelli che sono in cammino, Parola che spiega, interpreta e nutre la vita. È sulla nostra stessa strada, “cielo che prepara oasi ai nomadi d’amore” (G. Ungaretti).

Ermes Ronchi

Commento al Vangelo di domenica 30 aprile 2017

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“Voi siete il sale, voi siete la luce della terra”. Il vangelo è sale e luce, è come un istinto di vita che penetra nelle cose, si oppone al loro degrado e le fa durare. È come un istinto di bellezza, che si posa sulla superficie delle cose, come fa la luce, le accarezza, non fa rumore, non fa violenza mai, ne fa invece emergere forme, colori, armonie e legami, il più bello che c’è in loro. Così il discepolo-luce è uno che ogni giorno accarezza la vita e ne rivela il bello, uno dai cui occhi emana il rispetto amoroso per ogni vivente.Voi siete il sale, voi avete il compito di preservare ciò che nel mondo vale e merita di durare, di opporvi ai corruttori, di dare sapore, di far gustare il buono della vita.Voi siete la luce del mondo. Una affermazione che ci sorprende, che Dio sia luce lo crediamo; ma credere che anche l’uomo sia luce, che lo sia anch’io e anche tu, con i nostri limiti e le nostre ombre, questo è sorprendente. E lo siamo già adesso, se respiriamo vangelo. La luce è il dono naturale di chi ha respirato Dio.Quando tu segui come unica regola di vita l’amore, allora sei luce e sale per chi ti incontra. Quando due sulla terra si amano, diventano luce nel buio, lampada ai passi di molti, piacere di vivere e di credere. In ogni casa dove ci si vuol bene, viene sparso il sale che dà sapore buono alla vita.
Chi vive secondo il vangelo è una manciata di luce gettata in faccia al mondo (Luigi Verdi). E non facendo il maestro o il giudice, ma con le opere: risplenda la vostra luce nelle vostre opere buone.Sono opere di luce i gesti dei poveri, di chi ha un cuore bambino, degli affamati di giustizia, dei mai arresi cercatori di pace, i gesti delle beatitudini, che si oppongono a ciò che corrompe il cammino del mondo: violenza e denaro. La luce non illumina se stessa, il sale non serve a se stesso. Così ogni credente deve ripetere la prima lezione delle cose: a partire da me, ma non per me. Una religione che serva solo a salvarsi l’anima non è quella del vangelo.Ma se il sale perde sapore, se la luce è messa sotto a un tavolo, a che cosa servono? A nulla. Così noi, se perdiamo il vangelo, se smussiamo la Parola e la riduciamo a uno zuccherino, se abbiamo occhi senza luce e parole senza bruciore di sale, allora corriamo il rischio mortale dell’insignificanza, di non significare più nulla per nessuno.L’umiltà della luce e del sale: perdersi dentro le cose. Come suggerisce il profeta Isaia: Illumina altri e ti illuminerai, guarisci altri e guarirai (Isaia 58,8). Non restare curvo sulle tue storie e sulle tue sconfitte, ma occupati della terra, della città. Chi guarda solo a se stesso non si illumina mai.

Commento al Vangelo di domenica 5 febbraio 2017

Padre Ermes Ronchi

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Ecco l’Agnello che toglie il peccato del mondo. Non i <<peccati>>, al plurale, ma il peccato al singolare; non i singoli atti sbagliati che continueranno a ferirci, ma una condizione, una struttura profonda della cultura umana, fatta di violenza e di accecamento, una logica distruttiva, di morte. In una parola, il disamore che ci minaccia tutti, che è assenza di amore, incapacità di amare bene, chiusure, fratture, vita spente. Gesù, che sapeva amare come nessuno, è il guaritore del disamore. Egli conclude la parabola del Buon Samaritano con parole di luce: fai questo e avrai la vita. Vuoi vivere davvero? Produci amore. Immettilo nel mondo, fallo scorrere…e diventerai anche tu un guaritore del disamore.

Ermes Ronchi

Dal Foglio di Santa Fara del 15 Gennaio 2017.

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