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E mentre Leila correva con la musica nelle orecchie, lungo la strada che la riportava a casa, una coppia di giovani fidanzati, mano nella mano, passeggiava innanzi a lei.

Lei correva e non voleva ostacoli sul suo cammino, così li superò mentre lei attirava lui verso di se, perdendosi nel suo abbraccio.

Così Leila tornò sulla spiaggia, a quel fuoco, a quel picchiettare sulla spalla con cui Paul aveva sciolto ogni sua difesa. Tornò al mare, a quell’offesa.

Non fu però la dolcezza ad attraversarla ma la rabbia.

“Mi sento un sacco pieno di rabbia”. Questo Leila disse allo psicologo e furono lacrime, quelle in cui ogni parola non detta affogò urlante.

La musica continuava a scorrere, Patti Smith cantava “The people have a power”, le persone hanno il potere. Il potere di fare cosa? Leila si sentiva in trappola.

Ancora una volta camminava come una funambola incerta su un fiume di parole.

Se avessimo continuato a dircele tutte quelle parole adesso non ci sarebbero ferite profonde da curare.

Arrivata a casa, Leila lanciò il telefono con l’auricolare sul divano.

Era ancora acceso, Patti continuava a cantare chissà cosa e la notte prese le sembianze del lupo nero e si accoccolò ai piedi di quella donna così forte che ora sembrava così persa, seduta a terra con il viso tra le mani.

 

 

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Leila guardò il telefono, sono le 18.30. Era in anticipo per il suo appuntamento e si incamminò verso il mare.

Il vestito a righe e le mani in tasca, che silenzio pensò. Qualcuno correva sul lungomare, qualcun’altro era lì seduto solo a guardarlo. Qualche coppia, qualche faccia truce.

Una bimba giocava con due sfere, per metà trasparenti e metà colorate. I suoi genitori stavano sistemando un piccolo punto di ristoro, lí sul lungomare. “Bibite fresche” si legge su un cartello improvvisato e scritto maldestramente. La bambina aveva tanti boccoli biondi, sembrava un angelo. Leila pensò che forse era più fortunata di altre, o forse no.

Più avanti c’era ancora una panchina. Una signora sorrideva e chiacchierava con l’uomo innanzi a lei. Un copricapo all’uncinetto. Forse i segni di una chemioterapia. Fu impossibile non sorridersi.

Il silenzio che accompagnava Leila fu interrotto dalle campane della chiesa e dal richiamo della moschea.

Un ricordo le tornò alla mente, una foto scattata da un’amica in una moschea di Istanbul. Le donne musulmane pregavano con le mani giunte. Anche le donne cristiane lo fanno, pensò. Tutte bellissime in quel gesto raccolto e semplice che in India diventa Namasté che significa “Mi inchino al divino che è in te”.

È tardi. Leila guardò di nuovo il telefono, non portava più l’orologio da tempo ormai. Era ora di recarsi al suo appuntamento del lunedì. La terapia l’attendeva. Era un processo lungo e difficile che aveva intrapreso un anno prima, sotto l’occhio confortante del faro della sua città. Una nuova gestalt si sarebbe aperta questa sera.

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Era sabato notte. Eravamo sulla spiaggia.

Paul accese il fuoco, in silenzio, come sempre. Ci fu un tempo in cui quei silenzi erano carichi di parole, sembrava non esserne rimasta neanche una. Io volgevo le spalle al mare, quasi non mi accorsi di nulla.

Ero offesa, continuavo a essere offesa e davo le spalle a tutto, a lui, al mare, a quel vuoto che sembrava aver inghiottito tutto, anche le onde e pesci del mare.

Il fuoco aveva iniziato la sua danza, strideva forte contro i legnetti di fortuna trovati sulla spiaggia.

Continuai a guardare davanti a me ma i miei occhi cominciavano essere attratti da quel rumore che si faceva sempre più insistente. Picchettava sulle mie spalle.

Risvegliata dal torpore mi resi conto che non era il rumore del fuoco, erano le dita di Paul. Quando ci si metteva riuscire ad essere davvero fastidioso. Pensai seccata.

Ottene tuttavia il suo scopo, mi girai e guardai di nuovo il mare.

“Puoi essere offesa con me ma non posso permetterti di esserlo col mare. Tu lo ami troppo e io amo troppo vederti guardarlo”.

Paul sapeva che sarebbe stato sempre il secondo nella mia vita e aveva imparato che per vincere doveva allearsi con il mio amore numero uno: il mare.

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Avevo raggiunto il mio limite, le stelle erano scomparse e il buio aveva preso il sopravvento.

Dovevo porre rimedio a quella apatia che, come un dolce abbraccio, mi avvolgeva, infida e nemica ma ora pur sempre confortante.

La luce, dov’è la luce?

Mi giravo a destra, poi a sinistra sulla strada che stavo percorrendo, senza sapere dove stessi andando.

E dire che era iniziato tutto nel migliore dei modi. Solo una titubanza iniziale e poi via, ogni giorno un limite diverso veniva allontanato ed ero sempre più forte, sempre più felice.

Poi il vuoto si è fatto improvvisamente più insistente, non riuscivo a riempirlo con niente.

Io proprio io che davanti al mare correvo anche nelle tempeste, ora gli davo le spalle offesa, recalcitrante.

Era vuoto. Niente più onde, niente più pesci, niente più tramonti o albe da fotografare, il mare era vuoto.

Non mi rimaneva che sbattere la porta e andare via, quel vuoto doveva essere riempito, alla svelta, prima che fosse troppo tardi.

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Eccomi come sempre di fronte a te. Sei arrabbiato e io pure.

Mi siedo e subito sento le gocce salate che invadono i capelli. Esclamo: “Domani dovrò lavarli. Non importa ne vale sempre la pena”.

“Cosa?”, mi chiedi.

“Essere abbracciata da te quando sei arrabbiato, quando sono arrabbiata. Tu lo sai, io lo so, quando c’è qualcosa che non va ci vuole il vento che spazza via le parole che non vogliamo dire, che non vogliamo nemmeno pensare”.

Oggi é uno di quei rari casi in cui non mi dispiace non avere una penna, non serve fermare le parole sulla carta. Serve invece farle volare via.

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Il mare mi vede scrivere, chissà cosa pensa. Curioso si affaccia tra gli scogli, poi sparisce, poi appare di nuovo.

Sembra quasi che mi spii.

Ad un tratto si alza il vento, volano i fogli.

Rubarli era l’unico modo che il mare aveva di leggerli.

Cosa mi porta via il mare? Le mie parole, è avido delle mie parole.

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Sento di volerti raccontare quella prima storia di mare, accaduta lì, al largo, su quella barca, uscita per andare a pescare.

Non lo racconto a tutti quelli che incontro ma ho deciso di dirlo a te. Forse perché i tuoi occhi mi ricordano il mare, forse perché la nostra prima passeggiata fu sul mare.

Dunque la barca arrivó, era l’alba, ero una bambina, indossavo il velo bianco: era la consuetudine per chi veniva iniziato al mare. Anche i miei fratelli e le mie sorelle lo avevano fatto. Erano tutti lì quando toccó a me.

Il mare già rumoreggiava e io salí sulla barca a piedi scalzi, con l’abito di lino della domenica e quel velo bianco in testa.

Silenzio. Solo io sulla barca. Nessun’altro. Si mosse da sola sul mare.

Per portarmi dove mi chiedi? Non potevo saperlo, forse in nessun luogo, forse dappertutto.

Le onde s’infrangevano, non solo sulla barca, le sentivo anche addosso eppure ero completamente asciutta.

Non capivo.

La costa si allontanava, lo sentivo ma mi era stato detto di non girarmi mai a guardare indietro. Solo avanti.

A quel punto ero al largo e sentii nitida quella voce profonda ma paterna: “Chi sono io per te?”. Rimasi ammutolita, per un attimo ho creduto di essere pazza.

Ancora: “Chi sono io per te?”.

Il mare attendeva la sua risposta.

Sentii la mia voce dire: “Tu sei tutto per me”.

A quel punto quasi per magia la barca si girò e tornó indietro.

La mia iniziazione era compiuta: ero anche io sposa del mare.